Quattro bigliettini, con quattro desideri.

Dove vorresti essere tra quattro anni, chi vorresti diventare, chi vorresti che fosse al tuo fianco.

Un gioco semplice.

Li scriviamo, li nascondiamo dentro una scatola e tra quattro anni la riapriamo, per scoprire se si sono avverati, sia i nostri che quelli dei nostri amici.

Quattro bigliettini, con quattro desideri.

Impugnare la penna, scrivere la data.

Un gioco molto pericoloso, che obbliga ad esporsi molto, troppo.

Quattro bigliettini, con quattro desideri.

È una rasserenante certezza, quella del dominio di noi stessi. Ci penso spesso.

Devono essere i nostri valori a darci l’illusione di poterlo fare davvero, di poter davvero avere il controllo della nostra, minuscola, realtà e trainarla nel mondo circostante con la nostra direzione, quella che abbiamo scelto.

Eshkol Nevo ne La simmetria dei desideri parte da qui, dalla storia di un gruppo di amici simbiotico e vero che nel giorno dei Mondiali di calcio decide di chiudere in una scatola i propri desideri, per riaprirla ai Mondiali seguenti.

Ho letto questo romanzo una seconda volta prima di venire qui. Dopo la prima, non sarei stata in grado di scrivere una riga. Questo l’effetto che fanno certi libri: albergano qualche tempo dentro di noi per poi rivelarci perché si sono fatti amare così tanto.

La narrazione è pulita, affatto ridondante, bellissima.

Inevitabilmente, per tutta la durata del libro io non ho pensato solo a Yuval, Churchill, Amichai e Ofir, ma a me, ai miei quattro.

Così mi sono chiesta: quanta sfrontatezza ci vuole per esser sicuri che vorremo le stesse cose, tra quattro anni?

È più grande la paura di non veder realizzati i nostri desideri o quella, più recondita e viscerale, di non desiderarli più?

Ma allora, se a un certo punto avessimo il coraggio di vederci cambiare, non avremmo già realizzato una perfetta simmetria?