Ecco la storia del perché vorrei stare nell’attimo prima o nell’attimo dopo ma è giusto che resti qui.

fullsizerenderOggi vorrei avere trent’anni.

Non me la bevo la storia melensa su quanto sia bello godersi la strada, e che il senso della vita lo cogli mentre la scali la montagna, e non all’arrivo.

Io, oggi, voglio essere già in cima. E se la cima è più bassa di me quando avevo quattro anni, almeno lo so e la facciamo finita.

Via il dente, via il dolore.

Quantomeno non ci sarà più questa eterna incertezza che mi vede vestita di tanti ruoli diversi, senza realmente sapere  se porterò almeno le scarpe.

Se non posso avere trent’anni strizzando gli occhi un altro po’, allora voglio averne venticinque e due mesi.

A novembre dell’anno scorso, iniziavo il mio praticantato. Allora le cose erano meno chiare di adesso, e c’era lo stesso entusiasmo di oggi. Mancava però la paura di non farcela, quella sensazione viscida e morbosa che conduce dritti dritti alla fatidica domanda: “e se invece non ci riuscissi?”.

Non c’era, un anno fa; ero troppo concentrata a capire dove fosse la linea di inizio per preoccuparmi di arrivare o meno alla fine. Ed era bello, era meraviglioso.

Malgrado tutto questo, è giusto che io sia qui.

È importante che io sia qui, a corsa già iniziata, col fiatone, i capelli rattrappiti sulla testa, le gambe indolenzite. È qui che si conduce la battaglia, in questo tratto di strada. Qui deciderò se mollare o proseguire. Perciò, anche se è il momento più duro, devo restare, devo danzare.

Mi è arrivato forte e chiaro questo concetto: è lungo circa cinquecento pagine, ed è tutto scritto nel libro Dance dance dance, di Murakami Haruki.

Il protagonista è un uomo che ho odiato fino a pagina trecento. Di lavoro “spalava la neve”, ossia scriveva articoletti frivoli su un giornaletto di basso valore. «Qualcuno dovrà pur farlo. Qualcuno dovrà pur spalarla la neve» – diceva.

Tutto il libro vive il contrasto tra questa attività così ridicolmente triste e il pianto misterioso di una donna sconosciuta in un albergo visitato molti anni prima.

«C’è una donna nell’albergo del Delfino. Sta piangendo per me».

Questa frase ridonda di continuo. Così, l’uomo che spala la neve decide di mettersi  sulle tracce di chi “piangeva per lui” e durante la lunga ricerca, si chiede il perché.

Alla fine lo capisce: «Piange per me. Piange per quello per cui io non posso piangere». In una sorta di deflagrazione, l’uomo capisce che il motivo del pianto sta in tutto quello a cui lui si è arreso. La donna piange perché lui si è arreso a “spalare la neve” invece di lottare.

La ragione per cui io sono qui e non ho già trent’anni, o ancora venticinque, è che per me posso ancora piangere io; posso ancora piangere e poi rimettermi a danzare.

Questa è forse l’unica cosa bella: che ancora tocca a me, piangere o danzare. E nessuno può rannicchiarsi in un albergo a farsi cercare.

 

Il desiderio di essere come tutti

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in Italia fu la volta del colera. Piccolo racconta che, bambino, aveva paura di morire qualsiasi cosa ingerisse perché in televisione avevano detto che per il vibrione –questa parola spaventosa e sconosciuta− si moriva per davvero. Poi sua madre gli spiegò che non aveva di che preoccuparsi, perché il virus non aveva raggiunto la zona del casertano.

Da quel giorno nella sua famiglia il colera non fu mai più nominato.

Fu proprio lì, in quel segmento della vita in cui si è piccoli e tutto sembra infinitamente grande, che in lui crebbe il desiderio di essere come tutti.

Per anni − l’autore racconta − la sua vita fu dominata dalla voglia di sentirsi parte di qualcosa, di soffrire e di gioire anche di cose che non lo riguardavano direttamente, nella convinzione che l’epurazione dalla più semplice forma di egoismo lo avrebbe reso una persona diversa, migliore.

La storia si spiralizza nella corsa ai tutti del mondo. I tutti del partito comunista, i tutti con Berlinguer, i tutti alla morte di Berlinguer, i tutti contro Craxi, i tutti contro Berlusconi, i tutti contro tutti.

Alla fine della corsa, Piccolo trova il suo, personalissimo, traguardo.

«Sono nato con il desiderio di essere come tutti, però poi ci ho messo una vita intera a individuare con più precisione e consapevolezza questo desiderio, a concepire l’impuro come un modo di stare al mondo, e a coniugarlo con quel sobbalzo che feci durante una partita. […] Così, sono di nuovo in mezzo. Di nuovo, come Tomàŝ, a osservare da una parte una distanza politica, e una disinvoltura eccessiva e sprezzante; dall’altra, lo judo morale. Io che volevo essere come tutti, non riesco a essere come nessuno».

Non posso dire se sia giusto o meno avere il desiderio di esser come tutti. Il finale di questo libro appartiene a quelli che non si possono giudicare, come tutte le cose che attengono al vissuto altrui.

Detto questo, confesso che, dopo aver letto il libro, pensavo che avrei intitolato questa recensione “C’era una volta il premio Strega”. Ciò perché al libro manca qualcosa, non saprei ben dire cosa, e poi perché non mi sono ancora rassegnata all’idea che il premio Strega non è più quello di La chiave a stella di Primo Levi, che se lo aggiudicò nel 1979.

Il giorno della strage di Parigi ho cambiato idea perché, non so come, questo libro mi è tornato in mente. Ecco il pregio di Piccolo: la pertinenza.

Ho ripensato soprattutto alla frase di Natalia Ginzburg, che Piccolo mette in terza di copertina:

«Ora noi possiamo sentirci, in mezzo alla comunità, soli e diversi, ma il desiderio di rassomigliare ai nostri simili e il desiderio di condividere il più possibile il destino comune è qualcosa che dobbiamo custodire nel corso della nostra esistenza e che se si spegne è male. Di diversità e solitudine, e di desiderio di essere come tutti, è fatta la nostra infelicità e tuttavia sentiamo che tale infelicità forma la sostanza migliore della nostra persona ed è qualcosa che non dovremmo perdere mai».

Così, ho raggiunto anch’io il mio, personalissimo, traguardo. Come tutti.

 

Splendore

Lo confesso senza remore: ho letto tutti i libri della Mazzantini e mi sono anche piaciuti.

Sono consapevole del fatto che il panorama degli scrittori contemporanei offra di meglio, ma lei mi emoziona molto. Non passerò le prossime righe a giustificare questa mia passione per lei.

Non ti muovere ha creato un tale sconvolgimento in me, che delle due settimane in cui l’ho letto non ricordo nulla, salvo il fatto che passavo ore rannicchiata sul divano del mio salotto in una specie di isolamento obbligato ma volontario.

La Mazzantini è così, ti rapisce dalla dedica del libro –quasi sempre rivolta a suo marito Sergio− in poi.

Quando ho letto Splendore, era tanto che non leggevo qualcosa di suo.

Ci ho girato intorno per un po’: ne ho sentito parlare per mesi prima di decidere di aprirlo.

(Che a volte, per certe cose, ci si debba prima preparare il cuore?)

Il tema è molto pericoloso: dell’omosessualità si sono scritti fiumi di parole. Potenti intellettuali partecipano a boriosi convegni, psichiatri di tutto il Paese ricostruiscono mirabolanti collegamenti con il rapporto madre-figlio, padre-figlia, fratello-sorella, pronipote-bisnonno.

Ho sempre pensato che questo pulisse le nostre coscienze. L’esausto parlare, in questi anni di fuoco, ci ha fatto sentire migliori di chi discriminava apertamente gli omosessuali e, perché no, anche di chi non li capiva. Abbiamo così pagato la nostra quota di sostegno agli ultimi, agli inascoltati, agli incompresi.

Personalmente, non ho molto condiviso l’assioma per cui se parliamo di omosessualità, abbiamo capito come si sente un omosessuale. Per questo ho tanto apprezzato Margaret Mazzantini, ancora una volta.

Vorrei quasi ringraziarla per non avermi propinato la solita storia melensa sull’omosessuale emarginato dal suo tessuto sociale, che invece dentro di sé vive il suo orientamento sessuale come una splendida favola d’amore, senza alcun conflitto.

Splendore è un grido d’aiuto, è l’ammissione di una difficoltà. È il turbamento, tutto intero, di un uomo che ama un altro uomo ma non vorrebbe farlo. È la triste cogenza di un amore senza alternative, che mette tutti gli psichiatri e i potenti intellettuali di fronte ad una realtà quanto mai sgradevole e incomprensibile.

Ma Splendore è anche una storia di trionfo, il cui lieto fine è rivelato dalla consapevolezza raggiunta, dai dubbi risolti, dall’incontrovertibile vicinanza a cui alla fine i due protagonisti si arrendono.

È bella Margaret Mazzantini. È uno scrittore che sta nella trincea di questa società così difficile, così fuori contesto. L’ho vista dal vivo una volta, presentava proprio questo libro.

“Chi ama dura, chi ama resiste”, ha detto a un certo punto. Io l’ho scritto su un post-it nel mio armadio per tenerlo a mente ed è ancora lì.

Questa recensione l’ho scritta per la mia amica Giulia, che mi ha prestato questo libro dopo aver parlato ore su un treno Foligno-Roma. Per tutta la settimana ho creduto che di qui a poco avrebbe smesso di abitare a due isolati da casa mia e non riuscivo a prepararmi il cuore. Poi invece è rimasta.

Ho voluto riprendere Splendore per tenere pronto il cuore alla volta in cui la vedrò andar via davvero. Ma si sa che a certe cose non si è mai pronti veramente.

A un cerbiatto somiglia il mio amore (per te)

Io non sono nessuno per aggiungere qualcosa a Grossman. Ma la mia testa ha accompagnato al titolo del libro A un cerbiatto somiglia il mio amore le parole per te dal momento in cui la protagonista ha preparato il suo zaino ed è partita per la destinazione di niente. Da allora è rimasto così.

Ho provato a giustificare questa mia stupidissima scelta tutte le volte in cui, piena di entusiasmo, ho consigliato il libro aggiungendo quelle micro-paroline e l’unica risposta che sono riuscita a darmi è che questo non è un amore etero-diretto. Non è un amore liquido, come piacerebbe dire a Bauman. È un amore supremo e cogente, caparbio fino all’ostinazione.

Quindi secondo me non è un amore, è l’amore per te.

Il suo nome preciso è Ofir, che io ho sempre immaginato come un ragazzo bellissimo malgrado Grossman – d’una capacità descrittiva vicina all’ossessione – me lo abbia restituito come pallido e magro, coi capelli scurissimi e gli occhi scavati di stanchezza. Per me è sempre stato Ofir, filtrato dagli occhi di sua madre, che quando ha saputo che sarebbe tornato in guerra con l’esercito di Israele, ha fatto lo zaino ed è andata via.

L’obiettivo era semplice: se un generale con lo sguardo di dolore si fosse presentato a casa sua per dirle che suo figlio aveva perso la vita, lei non ci sarebbe stata.

Se il dolore scappa, lei scappa più forte, così forte da non vederla più.

Questa storia è il rifiuto di un’attesa inerme con le armi che si hanno, non importa se poche.

Che a volte anche non voler aspettare sia un gesto d’amore?

A me non importa se questa donna possa sembrare meno grande di altre per non aver avuto la forza e il coraggio di attendere una notizia tragica, di lasciarla sgusciare in casa sua come un verme sul soffitto.

Io l’ammiro, anche se in tutto il libro v’è la rabbia di Ofir sullo sfondo delle pagine, dovuta all’impossibilità di avere qualunque contatto con sua madre.

Gli amori, del resto, non sono tutti uguali. Alcuni attendono, altri s’infuriano.

Ammiro la madre di Ofir perché non so altro, se non una cosa: l’amore di questo libro è uno di quegli amori che ti spingono ad aggiungere le parole per te.

La simmetria dei desideri

Quattro bigliettini, con quattro desideri.

Dove vorresti essere tra quattro anni, chi vorresti diventare, chi vorresti che fosse al tuo fianco.

Un gioco semplice.

Li scriviamo, li nascondiamo dentro una scatola e tra quattro anni la riapriamo, per scoprire se si sono avverati, sia i nostri che quelli dei nostri amici.

Quattro bigliettini, con quattro desideri.

Impugnare la penna, scrivere la data.

Un gioco molto pericoloso, che obbliga ad esporsi molto, troppo.

Quattro bigliettini, con quattro desideri.

È una rasserenante certezza, quella del dominio di noi stessi. Ci penso spesso.

Devono essere i nostri valori a darci l’illusione di poterlo fare davvero, di poter davvero avere il controllo della nostra, minuscola, realtà e trainarla nel mondo circostante con la nostra direzione, quella che abbiamo scelto.

Eshkol Nevo ne La simmetria dei desideri parte da qui, dalla storia di un gruppo di amici simbiotico e vero che nel giorno dei Mondiali di calcio decide di chiudere in una scatola i propri desideri, per riaprirla ai Mondiali seguenti.

Ho letto questo romanzo una seconda volta prima di venire qui. Dopo la prima, non sarei stata in grado di scrivere una riga. Questo l’effetto che fanno certi libri: albergano qualche tempo dentro di noi per poi rivelarci perché si sono fatti amare così tanto.

La narrazione è pulita, affatto ridondante, bellissima.

Inevitabilmente, per tutta la durata del libro io non ho pensato solo a Yuval, Churchill, Amichai e Ofir, ma a me, ai miei quattro.

Così mi sono chiesta: quanta sfrontatezza ci vuole per esser sicuri che vorremo le stesse cose, tra quattro anni?

È più grande la paura di non veder realizzati i nostri desideri o quella, più recondita e viscerale, di non desiderarli più?

Ma allora, se a un certo punto avessimo il coraggio di vederci cambiare, non avremmo già realizzato una perfetta simmetria?

La Fallaci non ha scritto solo due libri

A me Baricco non piace.

Non mi è mai piaciuto e non ho letto tutti i suoi libri.

Me ne sono bastati due per capire che è uno scrittoruncolo da quattro soldi che usa un linguaggio verboso ma vuoto.

E sia chiaro, io adoro la scrittura baroccheggiante, è quasi un vezzo per me.

Ma Nabokov può usare l’espressione «linea tratteggiata dei documenti» per parlare di una carta d’identità. Baricco no, perché lui non dice niente.

E se non vi è nulla da dire, della scrittura barocca non mi importa un fico secco, non mi lascia nemmeno quel piccolo piacere che si prova quando il proprio bagaglio lessicale si è arricchito di un termine.

Baricco non mi piace perché scrive storie invorticate che non solo non hanno una morale, ma nemmeno una trama compiuta. Solo virtuosismi e virtuosismi. Un’ambizione gonfissima priva di realizzazione, tutto qui.

Comunque, io non ho letto tutto Baricco. Eppure non mi piace.

Ma l’opinionista dei social network che oggi, 11 settembre, citerà Oriana Fallaci solo per aver letto La rabbia e l’orgoglio e al massimo La forza della ragione, si sta assumendo una grande responsabilità, più grande di quella che io m’assumo con Baricco.

Ciò perché quando uno scrittore non scrive del mare, dei mondi di seta e del turbamento transuente dell’animo, bensì delle guerre realmente combattute, degli amori realmente vissuti e delle idee realmente sostenute, tocca prendersi la briga di leggerlo tutto.

E’ un po’ come quando facciamo un errore e in un moto di autodifesa ripercorriamo, nell’intimità della nostra cameretta, tutte le volte in cui non abbiamo sbagliato.

Dunque, Oriana Fallaci ha scritto La rabbia e l’orgoglio, ma anche Se il sole muore, Il sesso inutile, Niente e così sia, Un uomo e tutto il resto.

Io non sono nessuno per poter dire quali delle battaglie che ha combattuto fossero giuste e quali sbagliate; dico solo che dovremmo metterci in marcia e partecipare alle sue parole, perché è quello che si merita qualunque scrittore che abbia svuotato il suo piccolo o grande bagaglio esperienziale in un libro.

Conosco persone sfavorevoli all’aborto o in dubbio sull’aborto che hanno pianto tutte le loro lacrime per Lettera a un bambino mai nato e le stimo molto.

Questa è la grande potenza delle intelligenze dinamiche: guardare, senza molta retorica, al di là del proprio naso.

Non la penserò mai come la Fallaci e non la giustifico per essere stata ingiuriosa e poco obiettiva, né per aver tralasciato alcuni momenti storici che meritavano certamente più considerazione.

Resta però la scrittrice che più in assoluto ha cambiato il mio modo di sentire e ciò anche dopo il clamoroso articolo scritto sul Corriere della sera.

Mi è piaciuto anche Tiziano Terzani, che con il suo Lettere contro la guerra si è certamente avvicinato di più a ciò che penso di questo spaventoso conflitto, sottolineando proprio quei passaggi storici che nei libri della Fallaci mi erano mancati.

Vorrei solo si capisse quanto ci si perde a sentirci in dovere di esprimere un’opinione su tutto tralasciando il quadro generale.

Scaldiamoci, dio mio, è sacrosanto! Ma facciamolo con tutti i mezzi a nostra disposizione, non solo con una parte di essi.

Insomma, se qualcuno vuole farmi un regalo in anticipo per il mio compleanno, oggi, 11 settembre, legga un libro della Fallaci precedente al 2001.

E poi mi racconti com’è.

Il giorno della civetta

È il capitano Bellodi il protagonista di questa storia.

O forse è Carlo Alberto Dalla Chiesa, che era di Saluzzo, in provincia di Cuneo, ma si trasferì a Palermo per fare il prefetto e lì morì.

Bellodi è di Parma e la Sicilia non la sa definire.

«E’ incredibile, non so che altro dire».

Il racconto di Sciascia porta chi legge in tutte le fasi di un’indagine nella quale Bellodi riesce a stupire e a preoccupare non solo la Sicilia, ma anche Roma e l’Italia intera.

Due omicidi, tre indagati.

Quando il fermo viene convertito in arresto per Pizzuco e Marchica, sembra di sentire in Bellodi quella ricompensa piena di dignità ch’era evidente anche in Giovanni Falcone dopo le confessioni di Tommaso Buscetta, uno dei primi pentiti di mafia della storia italiana.

È una contentezza silenziosa e seria, non si lascia troppo andare.

Ma c’è, è lì sotto. La si vede.

Il giorno della civetta è un racconto sorprendentemente lucido scritto negli anni ’60, quando dire «la mafia non esiste» non comportava nemmeno un’apparente disapprovazione sociale.

È il disegno commovente di come Sciascia immaginava l’antimafia.

A me fa molto male al cuore, almeno quanto la Sicilia, che tutte le volte che la vedo penso a Sciascia che l’aveva descritta come “una donna bellissima” e vorrei solo che si mettesse un vestito e si alzasse da terra. E invece ostinata non lo fa, e persone come il capitano Bellodi ne soffrono, come soffrono gli uomini grandissimi.

Il racconto di Sciascia è bellissimo, soprattutto perché al suo interno mancano tutti gli aspetti dell’antimafia che, personalmente, non ho mai sopportato.

In questo libro manca, in altre parole, l’ostentazione dell’eroismo, che ha appesantito non solo l’antimafia, ma anche la coscienza sociale.

Lo scriverà anni dopo Marcelle Padovani, la giornalista che ha raccolto un’intervista a Giovanni Falcone nel libro Cose di cosa nostra: oggi c’è una voglia irreprimibile di raccontare quanto sia difficile, costoso e probabilmente disumano vivere sotto scorta. C’è un desiderio incontrollabile, a neanche un anno dalla chiusura di un processo, di raccontare cosa sia successo dietro le quinte.

La stessa voglia di descrivere le parole di un pentito di mafia incontrato in un carcere.

I tempi, insomma, sono cambiati.

Oggi i magistrati che combattono la mafia non sono più soli come lo è stato Giovanni Falcone e nessuno oserebbe dire che “la mafia non esiste”.

Ma si va incontro ad un’autoglorificazione spesso molto vacua, di cui, a mio parere, il principale e più doloroso esempio è stato proprio Roberto Saviano.

Quella di Bellodi nel giorno della civetta non è una battaglia ideologica, o quantomeno non solo.

È una lotta per il rispetto della legge, con l’uso della legge.

Sono felice quando leggo slogan come “Io al pizzo preferisco i baffi”. E sono anche contenta quando il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, nelle scuole elementari, spiega l’importanza della legalità.

Ma nessuno può immaginare quanto vorrei che Falcone non fosse ricordato solo per esser morto, ma soprattutto per esser stato vivo.

È a lui che dobbiamo la legge che attualmente consente che, nella scelta dei magistrati che si occupano di mafia, venga privilegiato il criterio della professionalità rispetto a quello dell’anzianità.

Questo vorrei che si dicesse.

Questo vorrei che i ragazzi imparassero a scuola: non solo le storie di morte degli anni ’90, ma pure quelle di vita degli anni ’70 e ’80, nei quali Falcone, Borsellino, Chinnici, Dalla Chiesa hanno fatto la rivoluzione, laggiù in Sicilia.

Ho amato questo racconto per l’intensità dei suoi contenuti.

E per la stessa intensità capisco ciò che Sciascia voleva dire con quell’articolo uscito sul Corriere della Sera nel 1987 (http://www.archivioantimafia.org/sciascia.php)

Su Borsellino si era sbagliato e la rivoluzione dovuta al privilegio del criterio di professionalità probabilmente non l’aveva capita.

Ma su tutto il resto aveva ragione.

Qualche volta, si è sporcata anche l’antimafia.

La tragica fine dell’indagine di Bellodi, nella quale tutte le accuse vengono messe sotto il tappeto, è il ritratto della frustrazione di molti operatori della legge.

Ma, dio mio! Quelle ultime righe, quando il capitano dichiara che tornerà in Sicilia e “ci si romperà la testa”, che potenza. Quasi disumana.

Questa recensione l’ho scritta per la mia amica Sabrina, che una volta ha detto cos’è per lei la legalità:

«E’ il cammino di un ragazzo che sceglie il teatro come alternativa alla manovalanza camorristica.

L’intransigenza morale del professionista che non mette la propria competenza a disposizione dei piani mafiosi. La quotidianità onesta che non cede ai vantaggi dell’indifferenza, né ai vittimismi della rassegnazione. È sinonimo di giustizia più che formalità la legalità, che insegna chi ha usato la cultura per combattere la logica della sopraffazione. Si chiama riscatto sociale».

Vorrei tanto che leggesse questo libro.

Ogni mattina a Jenin

Una brillante studentessa, Susan Abulhawa, laureata in biologia negli Stati Uniti.

Sarà la mia avversione verso le materie scientifiche, ma una laureata in biologia me la sono sempre immaginata piuttosto inquadrata.

Invece lei decide di andare a Jenin, e per andarci perde il lavoro. Tornata dal campo profughi palestinese dove ha avuto inizio la storia della sua famiglia ‒espatriata da ‘Ain Hod  nel 1948‒ scrive Ogni mattina a Jenin, il primo libro della sua vita.

Che non fosse pratica dello scrivere romanzi un po’ si vede, devo dire. Ogni tanto si ha la sensazione che voglia fare troppo, che voglia dire troppo.

È come riempire una pasta di tutte le spezie che abbiamo in casa per dimostrare quanto siamo creativi in cucina: chi la mangerà si troverà a sperare che almeno l’acqua non sia condita, per poi berne circa tre litri.

E poi: “Mi sono innamorata dei miei personaggi e a un certo punto sono stati loro a raccontarmi la storia”.

Questa faccenda dei personaggi che ti suggeriscono cosa scrivere io l’ho sentita ripetere più o meno da tutti senza mai francamente capirla.

Nonostante tutto, è un romanzo che consiglierei.

E’ raccontata la storia dei suoi nonni, dei suoi genitori, dei suoi fratelli: nasce tutto dal ventre della guerra dei sei giorni.

Però è un romanzo: non c’è un riferimento storico nemmeno a morire e le pagine sono così fitte di dramma che a un certo punto potrebbe essere ambientato nella Polonia del 1939 o negli Stati Uniti del 2001 e non farebbe differenza.

È un libro di dolore così grande che ad ogni pagina monta, si struttura, si rinforza.

Ma è anche un libro di stanchezze. C’è una rassegnazione assoluta dell’autrice nel raccontare il disfacimento della Palestina, con gli alberi che prima c’erano e poi non ci sono più, coi profumi che prima c’erano e poi non ci sono più, con le case che prima c’erano e poi non ci sono più.

L’ho rivisto sul comodino della casa al mare di una mia amica.

“Dovresti leggerlo”. M’è venuto d’impeto di dirlo.

E poi ho aggiunto: “Prepararsi a piangere molto”.

Raccontami una storia

Se una volta dovessero chiedervi di raccontare una storia, raccontate quella de La zattera di pietra di Saramago.

Un giorno un pezzo di terra si stacca dal resto ed inizia a vagare nel mare.

Il clima però è tutt’altro che fluttuante e Saramago è straordinario nel descrivere quella preoccupazione, quella frustrazione di chi ha lasciato qualcosa sull’altra zolla di terra, quella rimasta attaccata.

Un viaggio imprevisto.

Provate a immaginarvelo.

È quella precisa sensazione di frustrazione che proviamo quando ci troviamo catapultati in una situazione che non solo non avevamo previsto, ma che ci crea anche un disagio.

È quel disagio che prende il nome di imprevedibilità: non tutti sanno esserne contenti.

Se un giorno partiamo per una vacanza al mare e la busta piena di costumi la dimentichiamo sul letto di casa, certo non ci rovinerà la vacanza.

Ma quando tutti gli altri correranno verso il mare come fossero Muccino in Che ne sarà di noi e noi compreremo nel primo negozietto un costume con delle orrende palme disegnate sopra che ci costerà il doppio di quelli che abbiamo, la sentiremo, l’imprevedibilità.

Ci sembrerà fastidiosa come un mal di stomaco.

Ora, provate ad aggiungere al fastidio la paura di andare per mare senza sapere la direzione e senza immaginare con quante altre zolle di terra potreste scontrarvi.

Questo lo stato d’animo dei personaggi, ben descritto soprattutto dalla quasi totale assenza di punteggiatura, che poi è la firma di Saramago.

Nemmeno un punto, in tutto il libro.

La mia maestra delle elementari, per spiegarci l’utilità del punto, ci aveva detto che “è come prendere il respiro”.

In questo libro, in effetti, non si prende fiato, come se anche noi dovessimo patire, con quelle righe tutte addossate,  lo stesso senso di smarrimento dei personaggi.

A un certo punto però, il libro vira, cambia completamente direzione.

Dopo un po’, il costume con le palme non ci sembra così terribile, tutto sommato è anche comodo.

La vacanza è bellissima e del giorno in cui abbiamo realizzato di quella mancanza in valigia ci siamo già dimenticati.

Di più: proviamo quasi piacere, anche se non lo diremmo mai a nessuno, ad esserci adattati a qualcosa. Ad aver risposto, a modo nostro, a un piccolo controsenso.

La verità è che quel costume con le palme all’improvviso ci riconduce a qualcosa che prima non c’era e in vacanza vorremmo solo restarci.

È questo, secondo me, il pezzo in assoluto più bello del libro:

«Per alcuni minuti, mentre in tutti gli istituti geografici dell’Europa e dell’America del Nord gli osservatori analizzavano increduli i dati ricevuti dai satelliti ed esitavano a renderli pubblici, in Portogallo e in Spagna milioni di uomini terrorizzati erano ormai in salvo dalla morte e non lo sapevano In quei minuti, tragicamente, ci fu chi si mise a litigare sperando di morire e fu esaudito, e chi, non potendo più sopportare la paura, si suicidò Ci fu chi chiese perdono dei suoi peccati e chi, pensando che non vi fosse più tempo per pentirsi, domandò a Dio e al Diavolo di suggerirgli quali altri peccati poteva commettere Ci furono donne che partorirono, desiderando che i figli nascessero morti e altre che seppero di essere incinte di figli che, loro pensavano, non avrebbero mai avuto E quando un grido universale risuonò in tutto il mondo, Sono salvi, sono salvi, ci fu chi non ci credette e continuò a piangere la fine prossima, finchè non vi poterono essere più dubbi, i governi lo giuravano e lo spergiuravano, gli esperti andavano a dare spiegazioni, si diceva che la salvezza fosse dovuta a una forte corrente marina prodotta artificialmente, non si faceva che discutere se fossero stati gli americani o i sovietici Nessuno di noi però vuole tornare a casa nella valle, sarebbe per tutti l’inizio dell’ultimo ritorno, mi direbbe l’uomo che vuole sposarmi sposami, mi direbbe il capo dell’ufficio dove lavoro mi serve questa fattura, mi direbbe mio marito alla fine sei tornata, mi direbbe il padre del peggior alunno professore gli dia qualche ceffone, mi direbbe la moglie del notaio che accusa mal di testa mi dia qualche pillola per il mal di testa».

Si realizza in questo punto tutta la potenza di Saramago, che secondo me non è uno scrittore con un ritmo impazzito. La sua forza sta proprio nelle storie che crea, più che nella capacità narrativa in se stessa.

Alla fine, tanta è l’immedesimazione con quei sentimenti, che ognuno di noi vorrebbe conservare il costume con le palme. Per l’anno prossimo.

Cara signora Guzzanti, adesso le racconto Niente e così sia

Glielo racconto perché è veramente un peccato perderselo.

E io lo so che lei si è fermata a quella pagina che si trova nella prima metà del libro,  quando Oriana Fallaci racconta di voler tornare a Saigon perché New York le sembra piena di persone indifferenti alla vita, alla morte e al dolore. Ne sono certa.

A un certo punto, in quelle pagine, dice di capire François Pelou, che non riesce ad andare via dal Vietnam a causa del suo eroismo, perché i vietcong saltano in aria sulle mine, nessuno li vede, nessuno scatta loro delle foto, eppure non si stancano, non si arrestano mai.

È stata colpa, ne sono certa, di quella conversazione tra i due, nella quale Pelou le dice che a un certo punto non potrà più fare a meno dei colpi di mortaio.

Questa la ragione per cui un giorno, in un teatro, si è messa un elmetto in testa (https://www.youtube.com/watch?v=NA5-S51ylBM) e, imitando la scrittrice, ha detto «non mi sono mai sentita tanto viva quanto in guerra», frase realmente scritta da Oriana Fallaci nel suo racconto del primo degli otto anni passati in Vietnam a fare la corrispondente.

Un vero peccato.

Se solo lei, signora Guzzanti, avesse finito il libro.

Sarebbe stato sufficiente, in realtà, che approdasse dritta dritta a pagina 158: lì è riportato il diario di un soldato, che dopo soli quattro mesi di matrimonio viene chiamato alle armi.

«Oggi è un giorno molto importante per me perché è il primo anniversario del mio matrimonio. Un anno! Non si può certo dire che io e Can siamo una coppia fortunata. Dopo il matrimonio siamo rimasti insieme solo quattro mesi e in quattro mesi abbiamo vissuto gran parte del tempo a venti chilometri di distanza perché il mio laboratorio era lontano. Poi mi richiamarono alle armi e rividi Can per due giorni, tre mesi dopo. E poi più nulla. Che crudele destino per un vero amore. Mentre si avvicina il Tet, la sua mancanza è una spina nel cuore. Questo sarà il mio primo Tet lontano da casa. Vorrei che il Tet non esistesse perché serve solo a farmi soffrire. Non avrò che il mio diario cui confidarlo».

Ci sono diverse testimonianze come questa. La Fallaci racconta di non aver dormito tutta la notte per leggere quei pensieri affogati di paura di soldati i cui scritti si interrompevano d’improvviso.

Pensieri convulsi, ricordi d’infanzia, tentativi di avere un permesso di un giorno per l’ennesimo rassegnato saluto.

Lamenti di cui non importa a nessuno e che nessuno di noi avrebbe mai letto se non fossero stati accuratamente tradotti e riportati in quelle pagine.

La scelta è di pregio: restituire dignità a soldati tutti uguali con divise tutte uguali e storie tutte uguali: madri a cui dire addio, mogli, figli, piagnucolii di chi sta per morire e ogni giorno che non muore aspetta solo il giorno dopo.

Per quel che vale, io l’ho trovato portentoso.

La forza con cui, per tutto il primo anno in Vietnam, Oriana Fallaci racconta la storia di prigionieri, reduci, marines, vietcong, civili è in realtà un ossessivo grido alla vita.

Mi spiace che lei, signora Guzzanti, non l’abbia capito.

Mi spiace soprattutto che non lo abbia rispettato.

In fondo, io non stento a credere che l’adrenalina che circola nel sangue a Saigon quando ogni sera, con stupore, scopri di esserti salvata, non sia la stessa che si prova davanti a questa tastiera, ubicata nella mia confortevole casa. E non è nemmeno la stessa adrenalina che avrà provato lei, signora Guzzanti, nelle guerre che ha documentato.

Aspetti, nessuna guerra? Nemmeno una?

Accidenti, che disdetta! Siamo alle solite commediole: uno non va in guerra e vuole raccontare come si fa la guerra.

È un po’ come dire che una scrittrice che ha venduto milioni di copie dei suoi libri ‒tradotti in tutto il mondo‒ non è in grado di scrivere un romanzo.

Aspetti, ma non mi dica che ha detto anche questo?

Mi lasci solo riportare un passaggio, che è sempre nella seconda parte del libro, quella che lei non ha letto.

«Fui ammalata di eroismo per una lunga stagione della mia vita, fui colta da un nuovo attacco qui in Vietnam, ma ora ho giurato a me stessa di rifiutarlo. Perché se ammetti l’eroismo, devi ammettere la guerra. E io non devo non posso non voglio ammettere la guerra. E se mi dici che l’alternativa è la Svizzera io ti rispondo che non c’è nulla di male nel fabbricar buon formaggio, ottima cioccolata, e orologi che funzionano».

Quarta regola: i sentimenti di chi fa qualcosa che noi non abbiamo provato non si giudicano. Forse anche i sentimenti in generale non si giudicano, ma si apprendono.

Quinta regola: Escluso Proust, i libri che si iniziano, si devono anche finire.