Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, in Italia fu la volta del colera. Piccolo racconta che, bambino, aveva paura di morire qualsiasi cosa ingerisse perché in televisione avevano detto che per il vibrione –questa parola spaventosa e sconosciuta− si moriva per davvero. Poi sua madre gli spiegò che non aveva di che preoccuparsi, perché il virus non aveva raggiunto la zona del casertano.
Da quel giorno nella sua famiglia il colera non fu mai più nominato.
Fu proprio lì, in quel segmento della vita in cui si è piccoli e tutto sembra infinitamente grande, che in lui crebbe il desiderio di essere come tutti.
Per anni − l’autore racconta − la sua vita fu dominata dalla voglia di sentirsi parte di qualcosa, di soffrire e di gioire anche di cose che non lo riguardavano direttamente, nella convinzione che l’epurazione dalla più semplice forma di egoismo lo avrebbe reso una persona diversa, migliore.
La storia si spiralizza nella corsa ai tutti del mondo. I tutti del partito comunista, i tutti con Berlinguer, i tutti alla morte di Berlinguer, i tutti contro Craxi, i tutti contro Berlusconi, i tutti contro tutti.
Alla fine della corsa, Piccolo trova il suo, personalissimo, traguardo.
«Sono nato con il desiderio di essere come tutti, però poi ci ho messo una vita intera a individuare con più precisione e consapevolezza questo desiderio, a concepire l’impuro come un modo di stare al mondo, e a coniugarlo con quel sobbalzo che feci durante una partita. […] Così, sono di nuovo in mezzo. Di nuovo, come Tomàŝ, a osservare da una parte una distanza politica, e una disinvoltura eccessiva e sprezzante; dall’altra, lo judo morale. Io che volevo essere come tutti, non riesco a essere come nessuno».
Non posso dire se sia giusto o meno avere il desiderio di esser come tutti. Il finale di questo libro appartiene a quelli che non si possono giudicare, come tutte le cose che attengono al vissuto altrui.
Detto questo, confesso che, dopo aver letto il libro, pensavo che avrei intitolato questa recensione “C’era una volta il premio Strega”. Ciò perché al libro manca qualcosa, non saprei ben dire cosa, e poi perché non mi sono ancora rassegnata all’idea che il premio Strega non è più quello di La chiave a stella di Primo Levi, che se lo aggiudicò nel 1979.
Il giorno della strage di Parigi ho cambiato idea perché, non so come, questo libro mi è tornato in mente. Ecco il pregio di Piccolo: la pertinenza.
Ho ripensato soprattutto alla frase di Natalia Ginzburg, che Piccolo mette in terza di copertina:
«Ora noi possiamo sentirci, in mezzo alla comunità, soli e diversi, ma il desiderio di rassomigliare ai nostri simili e il desiderio di condividere il più possibile il destino comune è qualcosa che dobbiamo custodire nel corso della nostra esistenza e che se si spegne è male. Di diversità e solitudine, e di desiderio di essere come tutti, è fatta la nostra infelicità e tuttavia sentiamo che tale infelicità forma la sostanza migliore della nostra persona ed è qualcosa che non dovremmo perdere mai».
Così, ho raggiunto anch’io il mio, personalissimo, traguardo. Come tutti.