Glielo racconto perché è veramente un peccato perderselo.

E io lo so che lei si è fermata a quella pagina che si trova nella prima metà del libro,  quando Oriana Fallaci racconta di voler tornare a Saigon perché New York le sembra piena di persone indifferenti alla vita, alla morte e al dolore. Ne sono certa.

A un certo punto, in quelle pagine, dice di capire François Pelou, che non riesce ad andare via dal Vietnam a causa del suo eroismo, perché i vietcong saltano in aria sulle mine, nessuno li vede, nessuno scatta loro delle foto, eppure non si stancano, non si arrestano mai.

È stata colpa, ne sono certa, di quella conversazione tra i due, nella quale Pelou le dice che a un certo punto non potrà più fare a meno dei colpi di mortaio.

Questa la ragione per cui un giorno, in un teatro, si è messa un elmetto in testa (https://www.youtube.com/watch?v=NA5-S51ylBM) e, imitando la scrittrice, ha detto «non mi sono mai sentita tanto viva quanto in guerra», frase realmente scritta da Oriana Fallaci nel suo racconto del primo degli otto anni passati in Vietnam a fare la corrispondente.

Un vero peccato.

Se solo lei, signora Guzzanti, avesse finito il libro.

Sarebbe stato sufficiente, in realtà, che approdasse dritta dritta a pagina 158: lì è riportato il diario di un soldato, che dopo soli quattro mesi di matrimonio viene chiamato alle armi.

«Oggi è un giorno molto importante per me perché è il primo anniversario del mio matrimonio. Un anno! Non si può certo dire che io e Can siamo una coppia fortunata. Dopo il matrimonio siamo rimasti insieme solo quattro mesi e in quattro mesi abbiamo vissuto gran parte del tempo a venti chilometri di distanza perché il mio laboratorio era lontano. Poi mi richiamarono alle armi e rividi Can per due giorni, tre mesi dopo. E poi più nulla. Che crudele destino per un vero amore. Mentre si avvicina il Tet, la sua mancanza è una spina nel cuore. Questo sarà il mio primo Tet lontano da casa. Vorrei che il Tet non esistesse perché serve solo a farmi soffrire. Non avrò che il mio diario cui confidarlo».

Ci sono diverse testimonianze come questa. La Fallaci racconta di non aver dormito tutta la notte per leggere quei pensieri affogati di paura di soldati i cui scritti si interrompevano d’improvviso.

Pensieri convulsi, ricordi d’infanzia, tentativi di avere un permesso di un giorno per l’ennesimo rassegnato saluto.

Lamenti di cui non importa a nessuno e che nessuno di noi avrebbe mai letto se non fossero stati accuratamente tradotti e riportati in quelle pagine.

La scelta è di pregio: restituire dignità a soldati tutti uguali con divise tutte uguali e storie tutte uguali: madri a cui dire addio, mogli, figli, piagnucolii di chi sta per morire e ogni giorno che non muore aspetta solo il giorno dopo.

Per quel che vale, io l’ho trovato portentoso.

La forza con cui, per tutto il primo anno in Vietnam, Oriana Fallaci racconta la storia di prigionieri, reduci, marines, vietcong, civili è in realtà un ossessivo grido alla vita.

Mi spiace che lei, signora Guzzanti, non l’abbia capito.

Mi spiace soprattutto che non lo abbia rispettato.

In fondo, io non stento a credere che l’adrenalina che circola nel sangue a Saigon quando ogni sera, con stupore, scopri di esserti salvata, non sia la stessa che si prova davanti a questa tastiera, ubicata nella mia confortevole casa. E non è nemmeno la stessa adrenalina che avrà provato lei, signora Guzzanti, nelle guerre che ha documentato.

Aspetti, nessuna guerra? Nemmeno una?

Accidenti, che disdetta! Siamo alle solite commediole: uno non va in guerra e vuole raccontare come si fa la guerra.

È un po’ come dire che una scrittrice che ha venduto milioni di copie dei suoi libri ‒tradotti in tutto il mondo‒ non è in grado di scrivere un romanzo.

Aspetti, ma non mi dica che ha detto anche questo?

Mi lasci solo riportare un passaggio, che è sempre nella seconda parte del libro, quella che lei non ha letto.

«Fui ammalata di eroismo per una lunga stagione della mia vita, fui colta da un nuovo attacco qui in Vietnam, ma ora ho giurato a me stessa di rifiutarlo. Perché se ammetti l’eroismo, devi ammettere la guerra. E io non devo non posso non voglio ammettere la guerra. E se mi dici che l’alternativa è la Svizzera io ti rispondo che non c’è nulla di male nel fabbricar buon formaggio, ottima cioccolata, e orologi che funzionano».

Quarta regola: i sentimenti di chi fa qualcosa che noi non abbiamo provato non si giudicano. Forse anche i sentimenti in generale non si giudicano, ma si apprendono.

Quinta regola: Escluso Proust, i libri che si iniziano, si devono anche finire.